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In difesa dello spritz (e del cenone natalizio)

Io, francamente, non ne posso più. 
Mentre ci dicono che è interdetto l’aperitivo e che a Natale faremo il cenone soltanto con i parenti di primo grado (sic!), ci spiegano a che ora dobbiamo tornare a casa, fin dove possiamo allontanarci, perché non possiamo più andare in palestra e siamo condannati a serate casalinghe senza amici (solo conviventi: e se uno convive con se stesso?), apprendiamo, nell’ordine, che il sistema di tracciamento è fuori controllo, la sorveglianza attiva – unico strumento per convivere con il virus in tempo di pandemia – è saltata dacché il governo ha fallito su tamponi, tracciamento (Immuni chi?), terapie intensive e trasporti pubblici. 

Sì, i mezzi pubblici girano stracolmi e noi che vorremmo semplicemente lavorare dobbiamo chiedere il permesso per uscire di casa. Questo Covid19, di cui speriamo di liberarci presto, anzi prestissimo, è un virus infido perché ti impedisce di stare vicino a chi è malato imponendo quel distanziamento “sociale” che va ben al di là del distanziamento fisico.
Siamo tutti più soli, e lo sappiamo.

Quello che trovo però più insopportabile è la retorica paternalista con cui ministri e sottosegretari continuano a propinarci le regole del vivere Covid-compatibile: lo spritz è diventato l’Arcinemico, i giovani i “superdiffusori”, la movida è additata come la causa della seconda ondata. Come se cercare un momento di svago, un attimo di “decompressione” tra l’ufficio e il ritorno a casa avesse un che di peccaminoso, di indecoroso. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Per un virus che nove volte su dieci si diffonde tra le mura domestiche, in ambito familiare, ci aspetteremmo piuttosto l’invito a uscire di casa, con mascherina e ben distanziati, certo, ma a star fuori dagli appartamenti che per milioni di italiani non sono castelli, ma appartamenti appunto.

A New York si sono inventati le “iglù” trasparenti per consentire ai ristoranti di restare aperti garantendo la sicurezza dei clienti. E in molte città italiane, allietate da temperature miti, gli outdoor sono un ottimo compromesso per ritagliarsi un po’ di socialità, a distanza e all’aperto, senza assembramenti ma tra due o tre persone per tavolo. Certo, si corre qualche rischio, è indubbio, ma il rischio zero esiste solo a condizione di rinchiudersi in casa in perfetta solitudine, insomma di smettere di vivere. Per milioni di famiglie con i figli a casa gli spazi si contraggono, le preoccupazioni crescono e la comunicazione ansiogena del premier Conte, con stuolo di “virologi” allarmisti al seguito, non aiuta. 

Il Covid19 non mollerà la presa. E’ un virus con bassissima letalità, insidioso perché altamente contagioso, ma in oltre il 90 percento dei casi si manifesta con sintomi nulli o lievi. Difficilmente gli italiani e le italiane riusciranno a risollevarsi in tempi rapidi se il loro morale verrà depresso (e mortificato) sotto una montagna di moniti e lezioncine da parte di chi avrebbe dovuto preparare la risposta alla “seconda ondata” e invece ha mostrato, in un colpo solo, la propria totale inettitudine. 
Mentre il ministro della Salute Roberto Speranza vergava le pagine del suo libro (dal titolo “Perché guariremo”, toccate ferro), gli italiani hanno trascorso tre mesi sigillati in casa mostrando ossequioso rispetto verso i pesanti divieti imposti. Ci siamo dovuti giustificare ogni volta che uscivamo per fare la spesa o per portare il cane a spasso, senza superare la distanza massima consentita per fare un po’ di jogging mentre dovevamo resistere alla tentazione di svuotare il frigo per il “bisogno di vita”. 
Perché non è vita quella senza libertà. E’ sopravvivenza, non vita.

Annalisa Chirico

Redazione

 

 

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