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Perché non si può dire “cieco” e “spazzino”? L’inganno del follemente corretto

Il politicamente corretto è una gigantesca finzione. Ci raccontano che non possiamo più dire “cieco” o “spazzino” anche se la persona che indichiamo è effettivamente un cieco o uno spazzino. Il politicamente corretto è la nuova ideologia delle élite dominanti, è la censura dei giorni nostri, il bavaglio mascherato per una forma suprema di educazione, accortezza, raffinatezza. Per non offendere le “sensibilità” altrui, se non fosse che, di questo passo, sarà impossibile pronunciare qualsivoglia parola dal momento che le suscettibilità, anzi le ipersuscettibilità, si moltiplicano, le minoranze proliferano, le identità verso cui manifestare sommo rispetto continuano a diramarsi in un reticolo infernale che toglie il fiato, nonché la voglia di parlare.

Se anche le parole più vere e semplici diventano motivo di offesa e vendetta, vien voglia di star zitti. Vedi mai che qualcuno si offenda. In realtà, le persone normali non si offendono affatto, parlano un linguaggio scevro dalle costruzioni delle élite dominanti, per cui il cieco è “cieco”, non “ipovedente”, lo spazzino è “spazzino”, non “operatore ecologico”, e in queste parole non c’è offesa. Perché non sono le parole a decidere i comportamenti. Innumerevoli scrittori, inclusi i nostri Pavese e Calvino, hanno adoperato la parola “negro” senza generare offese perché sono i comportamenti razzisti a offendere, sono le parole pronunciate con toni aggressivi o con finalità discriminatorie a ledere la dignità di una persona di colore. Del resto, pensateci: possiamo offendere una persona cieca pur chiamandola “ipovedente”. La mancanza di rispetto si misura nei comportamenti, nel tono e nei gesti con cui ci esprimiamo, insomma in quello che ci mettiamo attorno. Invece i novelli legislatori della parola puntano a dirci come dobbiamo parlare, le parole che è lecito pronunciare e quelle che vanno bandite dal discorso pubblico.

Un tempo la battaglia per la libertà di espressione se la sarebbe intestata la sinistra che oggi, invece, appare come la principale fautrice della dittatura del politicamente corretto. Esimi pensatori, maschi e femmine, si ergono a paladini delle donne storpiando parole bellissime come “ministro” e “sindaco” che, affiancate a un nome femminile, significano: ce l’abbiamo fatto, non esistono più mestieri appannaggio soltanto degli uomini perché un ministro che si chiama “Elena” è certamente donna: qualcuno nutre dubbi in proposito? Così una donna che non soffre di problemi di autostima o di complessi di inferiorità dovrebbe rifiutare appellativi come “ministra”, una parola brutta che evoca la “minestra”.

Tutto questo per dirVi: parlate come volete. Il linguaggio evolve in modo spontaneo, naturale, non per decreto regio. Le élite che pretendono di imporre schemi di linguaggio dall’alto della loro onniscienza compiono un’operazione destinata al fallimento, in sé sbagliata. Costoro, anziché provare a migliorare le cose, puntano a  modificare le parole. È puro maquillage, un trucco per distinguersi dal popolino, dalle masse di persone normali che non capiscono perché non si possa dire “cieco” o “spazzino”.

Nell’ultimo libro di Luca Ricolfi, scritto insieme a Paola Mastrocola, dal titolo “Manifesto del libero pensiero” (La nave di Teseo), si riportano le parole di una donna di idee progressiste come Natalia Ginzburg che denuncia l’ipocrisia e la sopraffazione verso il comune sentire dei ceti popolari. Vi lascio con queste parole e con una esortazione: parlate come volete.

“Ci troviamo circondati di parole che non sono nate dal nostro vivo pensiero, ma sono state fabbricate artificialmente con motivazioni ipocrite, per opera di una società che fa sfoggio e crede con esse di aver mutato e risanato il mondo. Così accade che la gente abbia un linguaggio suo, un linguaggio dove gli spazzini sono gli spazzini e i ciechi sono ciechi, e però trovi quotidianamente intorno a sé un linguaggio artificioso, e se apre un giornale non incontra il proprio linguaggio ma l’altro. Un linguaggio artificioso, cadaverico, fatto di quelle che Wittgenstein chiamava parole-cadaveri. Per docilità, per ubbidienza – la gente è spesso ubbidiente e docile – ci si studia di adoperare quei cadaveri di parole quando si parla in pubblico o comunque a voce alta, e il nostro vero linguaggio lo conserviamo dentro di noi clandestino. Sembra un problema insignificante ma non lo è. Il linguaggio delle parole-cadaveri ha contribuito a creare una distanza incolmabile tra il vivo pensiero della gente e la società pubblica. Toccherebbe agli intellettuali sgomberare il suolo da tutte queste parole-cadaveri, seppellirle e fare in modo che sui giornali e nella vita pubblica riappaiano le parole della realtà”.

Annalisa Chirico

Redazione

 

 

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