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Conte-bis: è tempo di fare i conti con chi vuole licenziarlo in anticipo

Mercoledì sarà una giornata importante per la tenuta del governo. Le fibrillazioni attorno alla riforma del Meccanismo europeo di stabilità hanno scavato profonde voragini tra le principali forze della maggioranza. A prescindere dall’esito della votazione al Senato (dove i numeri sono ballerini, soprattutto a causa di possibili defezioni tra i 5 Stelle), per il Conte-bis nulla sarà più come prima: se fino ad oggi la debolezza dell’esecutivo nato per scongiurare il voto anticipato è stata la vera forza di un avvocato, ai più sconosciuto, assurto al ruolo di presidente del Consiglio, da domani tale debolezza sarà debolezza e basta. L’insoddisfazione di Pd, 5Stelle e Italia viva è ormai un dato acquisito e consolidato.

La questione è politica: il governo incaricato di arginare l’avanzata degli antieuropeisti, sorto sotto i migliori auspici europei, anzi con la “spinta” gentile, e decisiva, delle principali cancellerie europee, mostra di non avere una linea comune proprio sull’Europa. Su come si deve stare in Europa. Su come si deve agire in Europa. Al punto che la riforma del Mes diventa il totem di una battaglia ideologica che, tra tifoserie contrapposte, costringe il M5S a minacciare provvedimenti draconiani contro eventuali dissidenti mentre il segretario del Pd Nicola Zingaretti dichiara apertamente: “Non possiamo tirare a campare”.

Sullo sfondo i contrasti e i mal di pancia, manifestati con evidenza crescente anche dal leader di Italia viva Matteo Renzi, riguardano una gestione del potere sempre più “solitaria” da parte del premier Giuseppe Conte che, dopo aver affrontato i mesi pandemici non con i decreti del governo ma con gli atti firmati dal presidente del Consiglio dei ministri (i famigerati “Dpcm”, solipsismo puro), continua ad accentrare su di sé competenze e nomine, conserva gelosamente la delega ai servizi di sicurezza, blinda i fedelissimi, ignora la domanda di maggiore collegialità, anzi proprio in materia di sicurezza e informazione pretende la creazione di una Fondazione ad hoc (sotto la sua influenza, ça va sans dire), respinge ogni richiesta di rimpasto e sulla partita cruciale del Recovery Fund mira ad una struttura tentacolare che comporterà la nomina di centinaia di esperti e la sovrapposizione di livelli decisionali diversi con l’inevitabile rischio di esautorare i ministeri competenti. Al vertice della piramide decisionale ovviamente ci sarà lui, il premier.

Non c’è da stupirsi allora che i principali azionisti del governo siano a dir poco seccati per un andazzo che alimenta incertezza circa il futuro e fa accumulare ritardi (Spagna, Francia e Germania hanno già presentato alla Commissione europea il loro piano nazionale, il nostro – a detta del premier – sarà pronto a febbraio). Dinanzi a quella che si preannuncia come la più grave crisi economica dal secondo dopoguerra, il premier sembra anteporre la propria sopravvivenza politica (magari con un futuro partito centrista di cui già si vocifera) al più ampio progetto di rilancio nazionale. 

L’esito del voto del prossimo mercoledì diventa allora un elemento di contorno. Non importa quanti saranno, alla prova dei fatti, i dissidenti pentastellati, probabilmente meno di quelli annunciati, considerata la “flessibilità” dimostrata dagli eletti 5S anche su punti cardinali del loro programma (che includeva l’abolizione del Mes, by the way). Né appassiona il dibattito sulla compattezza o meno del cosiddetto “centrodestra” con una Forza Italia sempre più divisa tra il fronte euroscettico e quello centrista antisalviniano. Per il Conte-bis nulla sarà più come prima: l’incantesimo si è rotto e d’ora innanzi l’“avvocato del popolo” dovrà fare i conti con chi vuole licenziarlo in anticipo. La via per resistere a Palazzo Chigi si è fatta stretta e in salita.

Annalisa Chirico

Redazione

 

 

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