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L’allarme del Made in Italy: con i dazi addio competitività

Tesoretto (l’avanzo verso gli Usa è il più ampio, quasi 40 miliardi) messo a rischio dal combinato disposto di dazi e caduta del dollaro, che costringe le aziende a scegliere la strada meno dolorosa tra compressione dei margini e ritocco al rialzo dei listini. Che diverrebbe inevitabile se, ipotesi circolata ieri, per l’agroalimentare (7,7 miliardi di export negli Usa) si andasse verso un livello del 17%. (Sole 24 Ore)

«Se il 10% avrebbe potuto essere un compromesso sostenibile pur di garantire l’accesso al mercato americano alle nostre imprese – spiega il presidente di Federalimentare Paolo Mascarino – il 17% supererebbe la soglia di tollerabilità, aumentando notevolmente il rischio di un calo significativo delle esportazioni, anche alla luce dell’attuale svalutazione del dollaro. Gli Stati Uniti sanno bene che la UE è il primo esportatore di alimentari al mondo (235 miliardi nel 2024, di cui 13% negli USA), e dunque minaccia un nostro settore strategico per ottenere vantaggi su altri settori di interesse americano. Noi abbiamo però piena fiducia nell’azione del Presidente Meloni, che ha perfettamente capito l’importanza del mercato americano per il settore agroalimentare nazionale, conosce le nostre linee rosse e ha chiaro quale sia il perimetro entro il quale negoziare un compromesso sostenibile per tutte le nostre imprese. Qualora i dazi US non fossero sostenibili – aggiunge – per tutelare le imprese del settore alimentare chiediamo alla UE un intervento della mano pubblica: così come gli Stati Uniti hanno fatto con i dazi, che di fatto è un intervento pubblico per proteggere la loro industria, anche noi lo chiediamo. Non pensiamo a sussidi, ma ad un supporto temporaneo tramite un intervento europeo, simile a quanto fatto nel corso dell’emergenza della pandemia».

Stati Uniti che rappresentano un mercato vitale per l’export alimentare italiano, seconda destinazione alle spalle della Germania, il 14% del nostro export totale. «Il nostro Governo sta conducendo con successo un complesso negoziato in Europa per contenere tutti coloro che vorrebbero una risposta muscolare alla minaccia dei dazi Usa, strategia che rischierebbe di essere autolesionista per l’Europa e in particolare per l’Italia. L’industria alimentare europea dovrebbe concentrare gli sforzi nell’attivare una protesta forte e unitaria dei nostri importatori americani verso l’amministrazione Trump, a tutela dei loro interessi e di quelli dei consumatori statunitensi, perché saranno poi loro a pagare gran parte dei dazi al fisco Usa».

«Il 17% di cui si parla? Sarebbe una mazzata durissima – scandisce il presidente di Assolatte Paolo Zanetti – del tutto insostenibile per il settore, perché abbatterebbe in modo sensibile il nostro export lattiero-caseario. La Ue punti al 10%, il massimo tollerabile, diversamente ci uccidono il mercato». «Se l’accordo si chiudesse al 10% – aggiunge il presidente di Federvini Giacomo Ponti – spalmando i sacrifici lungo la catena del valore le vendite potrebbero non risentirne. Con dazi al 17% i prezzi al consumo invece aumenteranno, riducendo la domanda in particolare per i prodotti di fascia media e rilanciando l’italian sounding. Inoltre, al problema dei dazi si aggiunge la caduta a doppia cifra del dollaro e anche questo va nella direzione dell’aumento dei listini. Coprirsi è possibile ma costa, nell’ordine del 2-3% della cifra coinvolta».

L’area più ampia in termini di vendite verso Washington (quasi 13 miliardi) è quella della meccanica strumentale e della componentistica, dove i timori sono minori. «Qualche azienda ha già aumentato i prezzi – spiega il presidente di Federmacchine Bruno Bettelli – anche perché nel nostro settore i margini sono ridotti, c’è poco da comprimere. C’è chi segnala già qualche riduzione nella domanda, anche se in media pensiamo che con dazi al 10% l’impatto sarà ridotto. Si tratta in fondo di tecnologie che gli Usa non hanno e al momento la Cina subisce dazi superiori ai nostri, dunque è svantaggiata, per questo io resto mediamente ottimista».

Con oltre 10 miliardi di export verso gli Usa anche i farmaci sono tra i comparti più esposti, settore finora “graziato”. «C’è un cauto ottimismo verso una trattativa che confermi dazi zero – spiega il presidente di Farmindustria Marcello Cattani – mentre con dazi al 10% la stima è quella di perdere da uno a 1,5 miliardi di ricavi per il nostro settore. Ma il danno, in realtà, sarebbe per le famiglie statunitensi, che pagherebbero di più sia i farmaci che le assicurazioni sanitarie. Si tratta poi di un settore in cui il reshoring è lungo e complesso, servono 4-5 anni per avviare una produzione da greenfield. Ecco perché penso che il dazio “zero” possa essere confermato».

In allerta anche Federlegno (2,2 miliardi di export), che in un sondaggio vede dai dazi impatti possibili per quasi la metà delle imprese intervistate. «Negli Usa il rallentamento già si vede – spiega il presidente di FederlegnoArredo Claudio Feltrin – e molti ordini dei clienti sono in stand-by. Se il punto di caduta fosse il 10% non sarebbe gradito ma comunque si potrebbe gestire. E ad ogni modo un accordo metterebbe fine a questa grande incertezza, sbloccando le decisioni sul mercato».

Colpita è anche l’area della componentistica legata all’auto, non solo per la parte direttamente spedita a Washington (1,2 miliardi) ma anche per ciò che è diretto in Germania per vetture destinate oltreatlantico, domanda che a tendere potrebbe ridursi. Tenendo conto di dazi sul settore che al momento sono al 25%, livello che porta le imprese ad esplorare nuove strade. Come Paoli, fornitore delle pistole per i pit stop dei circuiti Nascar e Indy, 10 milioni di ricavi, di cui un quarto negli Usa. «Stiamo pensando di acquistare oltreatlantico acciaio e titanio, in modo da poterlo lavorare qui e riesportare a dazio zero – spiega la presidente e ad Francesca Paoli – anche se la convenienza dell’operazione è da valutare: dipenderà dal livello raggiunto dopo l’accordo con la Ue».

Redazione

 

 

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