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Tra le professioniste donne e i colleghi uomini, pay gap del 35%

Ammonta al 35% il divario del reddito tra le professioniste donne e i colleghi uomini. Emerge dall’indagine del Sole24Ore che ha analizzato i dati delle principali Casse professionali e le entrate dichiarate tra il 2010 e il 2019.

Ancora, secondo un rapporto Ocse nel 2019 il divario sulla paga oraria lorda si aggira intorno al 5,6%, mentre per Eurostat (2018) nel settore pubblico c’è un gap del 4% e in quello privato del 20%. Nell’Unione Europea il gap nel reddito è del 16%, motivo per cui Bruxelles ha deciso di intervenire con una direttiva ad hoc.

“Sono dati impressionanti dai quali emerge che il divario di reddito maggiore nelle fasce di età più avanzate è il segno dell’incepparsi della progressione della carriera per le professioniste per effetto del noto soffitto di cristallo”, afferma al Sole 24 Ore la sottosegretaria al Mef Maria Cecilia Guerra. Sono fondamentali per lei due punti presenti nel Recovery Plan: gli asili nidi e altre infrastrutture sociali.

La presidente dell’engagement group Women 20 Laura Sabbadini, che è anche direttrice dell’Istat, spiega: “Il gender pay gap è alimentato da una discriminazione esplicita, quella di una minore retribuzione a parità di lavoro, ma è anche il punto di sfogo di tutti gli ostacoli che le donne incontrano nel percorso professionale e che si traduce, per esempio, nel part time forzato e nella sospensione più o meno lunga dell’attività lavorativa”.

Come racconta il Sole 24 Ore, il divario tra i redditi si è però nel tempo attenuato. Se si guarda al 2010, il pay gap in media era del 40% con un reddito annuo di 43mila euro per gli uomini e di 26mila per le donne. Nel 2019 invece c’è stato un leggero incremento femminile (+2%), mentre per gli uomini un calo di circa 2.600 euro (-6%).

Le lavoratrici più colpite dal pay gap appartengono alla categoria delle avvocatesse, seguono le commercialiste e le ingegnere. Unico trend inverso è quello delle biologhe.

C’è poi un altro nodo importante nel divario tra uomini e donne ed è quello della “monocommittenza”: si tratta di partita Iva apparenti ovvero lavoratori di fatto dipendenti dagli studi che ricevono uno stipendio fisso, ma che sono penalizzati nell’avanzamento di carriere e quindi nel reddito. Questa situazione coinvolge più le donne degli uomini.

Un altro elemento che influisce sono i carichi familiari: “Credo che le donne rinuncino ad essere manager di se stesse solo per un fatto culturale. Grava ancora su di loro la responsabilità principale del carico familiare che assorbe tanta energia”, spiega Tiziana Stallone, vicepresidente Adepp.

Redazione

 

 

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