Attualità e politica

Gregoretti: Se Salvini va a processo, ci va anche Conte (e con un rompicapo giuridico in più!)

Un fatto è acclarato: Giuseppe Conte non era d’accordo, lo ha detto lui stesso. E se non era d’accordo chiaramente sapeva (del resto, era difficile non sapere essendo la notizia ampiamente riportata su tv e giornali, diciamo così).

Il premier, che sarà ascoltato dal gip di Catania nel processo Gregoretti, ha dichiarato espressamente che la gestione Salvini della vicenda oggetto di indagini non lo trovò concorde, eppure non risultano né in quei giorni né nei successivi dichiarazioni o atti che contestassero l’allora numero uno del Viminale.

Era un disaccordo intimo, quello del premier che evidentemente coltivava un sentimento di disapprovazione per quei 131 migranti bloccati in mare per sei giorni (e assistiti giorno e notte) ma lo coltivava nel foro della propria coscienza guardandosi bene dall’esternare il minimo dissenso. E tuttavia, se sequestro di persona fu (è questo il reato imputato a Salvini), per il premier le cose si metterebbero male, anzi malissimo: il Codice penale, all’art. 40 comma 2, dice che non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo.

Primo punto: se Salvini va a processo per sequestro di persona, Conte andrà a processo per concorso in omissione (cioè per non aver impedito che il reato si compisse pur avendo l’obbligo giuridico di intervenire – il rovello interiore non basta se sei presidente del Consiglio).

Ma c’è un secondo punto, ancora più insidioso. Poniamo il caso che il gip di Catania, dopo aver ascoltato il premier Conte (insieme agli ex ministri Toninelli e Trenta, e ai ministri Di Maio e Lamorgese) imponga al pm di iscriverlo nel registro degli indagati per concorso in omissione. A quel punto, secondo un copione già verificatosi con il senatore Salvini, la procura trasmetterebbe gli atti al Tribunale dei ministri che rimetterebbe la palla al Senato. E i senatori, come già accaduto per il leader della Lega, non sarebbero chiamati a pronunciarsi sull’esistenza o meno del reato attribuito a un ministro. Dovrebbero decidere se l’eventuale reato sia stato commesso o meno “per il perseguimento di un preminente interesse pubblico”.

Questo, e solo questo, dice la Legge Costituzionale del 1989.

E’ una legge che non tutela la persona ma la carica ministeriale. Non c’entra dunque il fumus persecutionis, non c’entra la richiesta di autorizzazione a procedere nel caso di arresti o intercettazioni. I senatori dovrebbero rispondere al seguente quesito: “Ammesso che esista un reato, Conte agì per tutelare l’interesse superiore della nazione o per un proprio tornaconto?”.

E qui vengono i guai: perché Conte non agì, non intervenne, non compì alcun atto volto a impedire ciò che accadde. A Conte, come si è detto, è ascrivibile al più un reato omissivo. Ecco allora che i nostri senatori, che già manifestano scarsa familiarità con le questioni giuridiche essendo più propensi a strumentalizzarle a seconda delle convenienze, sarebbero alle prese con un quesito paradossale, con un truismo logico.

Una matassa che è impossibile sbrogliare, ragione in più per augurarsi che a Catania, dove la procura ha già chiesto il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste, il buon senso e l’applicazione del diritto portino a chiudere presto una vicenda che non doveva neanche iniziare.  

Redazione

 

 

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