Economia

I terroristi dell’evasione, ovvero le imprese fallite per i debiti verso il fisco

Mercoledì scorso il viceministro all’Economia Maurizio Leo, di Fratelli d’Italia, ha creato polemiche nella sua maggioranza: «L’evasione fiscale è come un macigno – ha detto –. Tipo il terrorismo». Dalla Lega si sono levate voci contro la “caccia alle streghe”, mentre dal resto del mondo politico – maggioranza e opposizione – nessuno ha pronunciato una parola a sostegno di Leo. Un’osservazione interessante si è però sentita il giorno dopo, per bocca del direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini: il cosiddetto “magazzino” della riscossione, in sostanza lo stock delle tasse e multe non pagate, vale 1.206 miliardi di euro . Ora, era 987 miliardi tre anni e mezzo prima. Dunque sta crescendo al ritmo medio di 62 miliardi all’anno. (Corriere)

L’impressione è che con quella battuta Leo volesse lanciare un messaggio al garante della privacy Pasquale Stanzione, perché permetta più controlli sui dati personali dei contribuenti. Ma un aumento in pochissimi anni di oltre duecento miliardi dei debiti degli italiani verso lo Stato, riconosciuti ma non pagati, richiede qualche spiegazione di più. Quel “magazzino” in buona parte è come un cimitero delle tasse: si sa già che almeno il 40% delle somme è irrecuperabile, sepolto da qualche parte, anche perché spesso riguarda imprese che non esistono più. E l’aumento impressionante dal 2020 non può essere solo il risultato dell’ingresso trionfale del “magazzino” dei crediti delle amministrazioni autonome della Sicilia.

Dando un’occhiata all’andamento del “cimitero” fiscale dell’ultimo decennio. E almeno un’anomalia salta fuori. E’ riportata nei numeri allegati all’audizione dell’Agenzia delle Entrate alla commissione Finanze e Tesoro del luglio scorso e riguarda il sistema produttivo. I crediti fiscali dello Stato verso “soggetti falliti”, cioè imprese in bancarotta, hanno un andamento bizzarro. Fra l’inizio del secolo e il 2010 si erano formati al ritmo di circa tre miliardi l’anno. Poi, fra il 2011 e il 2015 e fra il 2016 e il 2020, la velocità dell’accumulo dei debiti delle imprese fallite verso l’Erario è cresciuta a poco più di cinque miliardi l’anno. E anche qui, soprattutto nel primo quinquennio, tutto sempre abbastanza normale: fra il 2009 e il 2013 il prodotto lordo collassò del 7,6% e in seguito è rimasto quasi stagnante fino al Covid. E’ comprensibile che in quella fase siano stati più numerosi i fallimenti, anche di soggetti che avevano arretrati con il fisco.

Anche nel 2021 e nel 2022 i debiti fiscali verso lo Stato delle imprese fallite hanno continuato a formarsi sempre allo stesso ritmo. Sempre cinque miliardi l’anno. E questo è molto più strano. Quasi misterioso. Com’è possibile? In quel biennio il prodotto lordo è cresciuto del 10,7% e infatti ci sono stati molti meno fallimenti. Come si vede dal grafico che ne disegna l’andamento, si viaggia al ritmo di circa duemila fallimenti a trimestre, mentre per gran parte del decennio precedente erano fra tremila e quattromila. Ovvio, anche perché il Fondo pubblico di garanzia per le piccole e medie imprese sta garantendo i debiti di queste ultime per più di 100 miliardi. Ma se ci sono molti meno fallimenti eppure questi ultimi generano sempre gli stessi insoluti verso lo Stato, può voler dire solo una cosa: le aziende che saltano in questi anni sono molto più cariche di arretrati fiscali e contributivi. Come se stesse diventando di moda concentrare tasse e contributi non pagati dentro veicoli societari ai quali poi si stacca la spina. Vengono fatti fallire ad arte: bancarotta fraudolenta ai danni dei contribuenti onesti.

Oggi il “magazzino” delle imprese fallite presso l’Agenzia delle Entrate vale 156 miliardi e vale invece 168 miliardi quello dei “soggetti deceduti e ditte cessate” . Impossibile dire quanto di queste somme sia legato a frodi fiscali, ma sicuramente una parte sostanziale. Il danno alla cosa pubblica è enorme, anche perché il Fondo di garanzia dell’Istituto nazionale previdenza sociale (Inps) deve poi intervenire per circa mezzo miliardo all’anno a coprire gli ultimi tre mesi di contributi e la liquidazione dei dipendenti di quelle aziende usate e poi mandate contro gli scogli.

Redazione

 

 

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