Economia

Stipendi, torna la «scala mobile»? L’idea degli aumenti automatici in busta paga

C’è un fantasma che torna a muoversi tra le carte della manovra economica. Si chiama scala mobile e da oltre trent’anni (la sua soppressione definitiva avvenne il 31 luglio 1992) giaceva sepolto nel lessico dell’economia italiana. Ora, il suo nome riappare, in filigrana, dentro una norma che, qualora ricevesse l’ok dal Consiglio dei ministri previsto per oggi 17 ottobre, promette di cambiare – o almeno di scuotere – il modo in cui si rinnovano i contratti di lavoro. (Corriere della Sera)

Il governo, nelle bozze della legge di Bilancio, mette sul tavolo due miliardi di euro che sarebbero stati trovati – il condizionale è d’obbligo – per garantire la detassazione degli aumenti contrattuali per il triennio 2026-2028. L’obiettivo dichiarato è semplice: accelerare una stagione di rinnovi contrattuali spesso bloccata per anni.

Ma l’incentivo, da solo, non basta. E così, la bozza della norma prevede che, se un contratto non viene rinnovato entro due anni dalla sua scadenza, «le retribuzioni sono adeguate alla variazione dell’Ipca (uno dei principali indici usati per misurare il caro prezzi, ndr) entro il tetto massimo del 5% annuo, a decorrere dal primo gennaio 2026». In concreto, se un contratto resta fermo, il lavoratore recupera in busta paga l’aumento dei prezzi, ma sempre entro un limite.

Una misura che, di fatto, reintroduce un meccanismo di adeguamento automatico dei salari al costo della vita. Non una scala mobile piena, ma qualcosa che le somiglia. E che, dalle parti di Viale dell’Astronomia, la sede della Confindustria, sta già provocando più di un sopracciglio alzato.

C’è poi un secondo punto, destinato a pesare ancora di più sui conti delle imprese. Dal 2026, ogni contratto rinnovato – anche in ritardo – dovrà riconoscere gli arretrati. Significa che, se un contratto scaduto nel 2025 venisse firmato nel 2028, gli aumenti scatterebbero retroattivamente da gennaio 2026. Due anni di incrementi accumulati, da corrispondere in un’unica soluzione. È lo stesso meccanismo che già vale nel pubblico impiego, ma nel settore privato rappresenterebbe una novità sostanziale. Una doppia spinta: a firmare prima, e a non lasciare indietro i lavoratori.


Intanto, da sinistra arriva la proposta di legge di Alleanza Verdi e Sinistra, battezzata «Sblocca stipendi», che chiede di agganciare automaticamente tutte le retribuzioni all’inflazione reale, finanziando la misura nel pubblico impiego con un aumento dell’imposta sulle plusvalenze azionarie. «Serve una terapia shock per restituire agli italiani il potere d’acquisto perduto», spiega Nicola Fratoianni, mentre Angelo Bonelli accusa il governo di «iniquità sociale». Secondo i loro calcoli, i redditi fino a 20 mila euro guadagnerebbero 125 euro al mese, quelli fino a 28 mila 275 euro, fino a 55 mila 343 euro: cifre molto lontane, dicono, da quelle previste dalla manovra.

Palazzo Chigi non ha replicato ufficialmente. Ma la questione tocca un nervo scoperto. Da un lato c’è l’urgenza di proteggere i salari dall’erosione dell’inflazione. Dall’altro, il timore di riattivare la spirale prezzi-stipendi che l’Italia aveva faticosamente disinnescato negli anni Ottanta. Allora, la scala mobile garantiva un adeguamento quasi automatico dei salari, ma contribuì anche a spingere in alto l’inflazione. Oggi, con un tetto al 5% e un’applicazione condizionata al mancato rinnovo dei contratti, il rischio appare più contenuto. Ma il principio è lo stesso: legare di nuovo la busta paga all’andamento dei prezzi. A distanza di quarant’anni, però, la domanda sembra essere rimasta la stessa: chi deve pagare il conto dell’inflazione?

Redazione

 

 

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