Il petrolio del Golfo Persico? Non solo non ha mai smesso di transitare attraverso lo Stretto di Hormuz. Ma durante la crisi le forniture sono addirittura aumentate: persino quelle iraniane. Teheran si avvia anzi a concludere il mese di giugno con una produzione di greggio da record, ai massimi da sette anni. E potrebbe accelerare ulteriormente le estrazioni se lo spiazzante via libera di Donald Trump agli acquisti cinesi avrà qualche seguito, esercitando ulteriori pressioni sul prezzo del barile. (Sole 24 Ore)
Funzionari della Casa Bianca hanno cercato di ridimensionare l’ipotesi che gli Usa possano fare dietrofront sulle sanzioni contro la Repubblica islamica, mai ritirate da quando lo stesso Trump le aveva reintrodotte nel 2018 (e applicate anche dalla Ue). Ma il presidente è stato molto esplicito, lasciando intendere di essere quanto meno disposto d’ora in avanti a chiudere un occhio sulle importazioni di Pechino.
L’inatteso cambio di atteggiamento è stato segnalato martedì 24 da Trump attraverso il social Truth: «Ora la Cina può continuare a comprare Petrolio dall’Iran», ha scritto, aggiungendo subito dopo «Sperabilmente compreranno un sacco anche dagli Usa. È stato un mio Grande Onore permettere che questo accada!». Due brevi post, che si sono intrecciati a tante altre esternazioni – spesso colorite – dopo la fine dei raid in Iran e il cessate il fuoco che impegna anche Israele.
Il mercato non ha comunque mancato di prendere nota, intensificando l’ondata di vendite sul petrolio, che nelle prime due sedute della settimana ha fatto crollare del 14% le quotazioni. Mercoledì 25 il Brent è rimbalzato di circa l’1%, ma intorno a 67 dollari al barile ha continuato a scambiare su livelli simili a quelli di prima dell’attacco israeliano contro l’Iran, avvenuto il 13 luglio.
Lo scacchiere mediorientale in realtà rimane molto instabile e anche i rischi per l’offerta petrolifera non sono scomparsi, avvertono diversi analisti. Tra questi Amrita Sen, fondatrice di Energy Aspects, che mette in guardia dal «compiacimento» che il mercato sembra dimostrare: nel medio termine in particolare, l’eventuale crollo dell’attuale regime potrebbe precipitare l’Iran nel caos con conseguenze anche sulla produzione di idrocarburi. I precedenti in Paesi Opec non mancano, dalla rivoluzione islamica del 1979 nello stesso Iran alla Guerra del Golfo del 1991, al colpo di Stato del 2002 in Venezuela, fino alla guerra civile scoppiata in Libia nel 2011, ricorda Sen in un editoriale sul Financial Times: in tutti questi casi ci sono state «gravi interruzioni dell’offerta di petrolio, che hanno impiegato anni se non addirittura decenni a risolversi, spesso portando a prezzi del greggio elevati».
Oggi come oggi, che sia o meno un «compiacemento», gli investitori sono comunque tornati a guardare ai fondamentali: lo spauracchio di una chiusura dello Stretto di Hormuz sembra già dimenticato. E il petrolio al momento non manca. Persino, come si diceva, quello estratto in Iran.
Proseguendo agli attuali ritmi, la produzione di Teheran a giugno dovrebbe superare 3,5 milioni di barili al giorno, contando solo il greggio: un record da agosto 2018 (quando aveva raggiunto 3,62 mbg). Se si aggiungono condensati e altri liquidi, allora si sale addirittura intorno a 4,3 mbg.
La crescita prosegue da circa 4 anni, durante i quali l’export iraniano – sceso sotto 400mila bg nel 2021 – è più che quadruplicato, portandosi in media a 1,7 mbg quest’anno, diretti per circa l’80% in Cina. Tenendo conto anche delle triangolazioni con la Malaysia, Rfi Research stima che Teheran arrivi in realtà a 2,2 mbg.
Anche le recenti operazioni militari non hanno costituito un ostacolo, così come ha inciso ben poco la recente stretta alle sanzioni Usa: un ritorno alla strategia della «massima pressione» su cui Trump fino a un mese fa sembrava non ammettere ripensamenti. Da febbraio nella lista nera degli Usa sono entrati decine di ulteriori individui, petroliere e società accusati di agevolare il commercio di barili iraniani, tra cui anche tre società di raffinazione cinesi, cosa che però ha frenato in misura limitata gli acquisti di Pechino.
Ora la Repubblica popolare potrebbe sperare addirittura in qualche esonero dalle sanzioni (nel 2018 ne vennero concessi molti), ma se anche non ne ottenesse, potrà contare sulla benevolenza di Trump. Le sue importazioni sono state “sdoganate”, al di là delle puntualizzazioni di funzionari della Casa Bianca, secondo cui il presidente intendeva solo «richiamare l’attenzione» sul fatto che grazie al suo intervento «lo Stretto di Hormuz non subirà impatti, che per la Cina sarebbero stati devastanti» e di certo non incoraggiare importazioni «in violazione alle sanzioni Usa», che restano in vigore.
Se per cancellare o alleggerire le sanzioni di certo non bastano un paio di post sui social, l’amministrazione Usa può però tornare a chiudere un occhio: evitare l’enforcement, come del resto ha fatto per anni, soprattutto (ma non solo) durante la presidenza di Biden.
Stando ai dati ufficiali, la Cina da luglio 2022 ha smesso del tutto di importare greggio da Teheran. Ma in realtà, in parte direttamente e in parte via Malaysia, nel 2024 ne ha importato in media 1,4 mbg, secondo Kpler: un segreto di Pulcinella che Pechino non si sforza di nascondere.
Trump forse si è fatto sfuggire qualche parola di troppo, ma la sostanza resta: Pechino può continuare a comprare. Una concessione che forse è la contropartita per il ruolo di mediazione che quasi certamente ha esercitato dietro le quinte con Teheran, decisivo per la de-escalation. Ma che è utile anche a fermare il rally del petrolio, che rischiava di infiammare l’inflazione: una vera ossessione per il presidente Usa, che cerca di contenere gli effetti collaterali di un’altra “guerra”, quella che ha scatenato con l’arma dei dazi.